di Beppe Scienza*
Più controlli, più trasparenza. Queste furono le promesse un anno fa dopo il fallimento della Lehman Brothers. L’obiettivo era evitare una nuova crisi finanziaria. Però i controlli non sono aumentati né c’è traccia di una maggiore trasparenza. Anzi, si registra addirittura qualche peggioramento. È il caso, per stare in Italia, di alcuni indici di Borsa, fra cui in particolare quello delle cosiddette blue chips ovvero delle 40 più importanti azioni italiane (Unicredit, Eni, Intesa, Generali ecc.). Tale indice si chiamava S&P/Mib. Dal giugno 2009 è diventato Ftse Mib a seguito della vendita della Borsa Italiana alla Borsa di Londra , un’operazione deprecabile da vari punti di vista. Fatto sta che prima la composizione dell’indice era pubblica. L’elenco aggiornato dei 40 titoli coi loro rispettivi pesi si poteva sempre scaricare liberamente dal sito della Borsa. Da giugno invece non è più pubblico. L’indice è ora proprietà di una società privata per giunta estera, cioè della Ftse, e la sua composizione verrà fornita solo a pagamento. Gli stessi abbonati alla banca dati Bloomberg non hanno accesso a essa, se non pagando un canone aggiuntivo rispetto a quello base che è comunque nell’ordine dei 20 mila dollari l’anno. Non è certo questa la via per una maggiore trasparenza. Oltre tutto l’indice Ftse Mib è un parametro (c.d. benchmark) per valutare per valutare la gestione di fondi comuni e fondi pensione. La composizione dell’indice Ftse Mib all’ultima revisione è comunque scaricabile dalle mie pagine web all’Università di Torino ( www.beppescienza.it ). Ma il vero problema non sono i peggioramenti, come quello descritto, limitati anche se irritanti. Il vero scandalo sono i casi incancreniti di mancanza di trasparenza, che non sono stati neppure affrontati, tanto meno risolti. Si prendano per esempio le cosiddette euro-obbligazioni che sono la stragrande maggioranza dei titoli a reddito fisso nei fondi e nelle gestioni. Ufficialmente sono quotate, ma non alla Borsa italiana o francese ecc. bensì a quella di Lussemburgo. Ma non solo non vengono comprate o vendute lì (bensì sul cosiddetto euromercato, una piazza virtuale priva di regolamentazione). Ma neppure i prezzi alla Borsa di Lussemburgo sono significativi. Su questo punto non si è fatto niente. Così la finzione continua e restano tante occasioni per ruberie nei fondi comuni e nei fondi pensione.
Il risparmio gestito fa impunemente perdere soldi ai risparmiatori italiani grazie anche alla mancanza di trasparenza. Come giudichereste infatti un amministratore di condominio che ogni anno comunica solo un numero, cioè il totale da pagare? A un inquilino ad esempio scrive: “Per il 2009 lei deve in tutto 2.720 euro” e basta. Senza dire quanto per il riscaldamento, quanto per la luce, la pulizia delle scale ecc. E tiene nascoste tutte le bollette e fatture che dice d’avere ricevuto. La chiamereste trasparenza? Ovviamente no. Ebbene, qualcosa di analogo capita a chi ha i suoi risparmi in un fondo comune. Ogni giorno il gestore gli dice quanto vale il fondo. Ma non quali azioni od obbligazioni ha comprato, quando e a che prezzo. Né quali ha venduto, che giorno e a che condizioni. Un cliente non ha diritto di sapere in dettaglio come sono stati spesi i suoi soldi. Né adesso néin futuro. Persino gli archivi del Ministero degli Interni dopo 70 anni vengono aperti. Quelli dei fondi comuni mai. Peggio ancora per i lavoratori il cui Trattamento di fine rapporto (Tfr) è finito, di riffa o di raffa, in un fondo pensione. O per chi ha messo i suoi risparmi in una polizza previdenziale. In tali casi il buio è quasi totale. Cosa sostiene invece il presidente della principale associazione delle società di gestione (Assogestioni ) sul settimanale Economy allegato a Panorama? Marcello Messori ha la faccia tosta di affermare che “chi investe chiede trasparenza e [i fondi] la offrono” e di ripetere che “le caratteristiche di base dei fondi sono semplicità e trasparenza” (30-9-2009 pag. 37). Una panzana colossale. E da decenni schiere di giornalisti economici echeggiano tali affermazioni. Ecco un paio di esempi. Un articolo di Gianfranco Ursino sul “Sole 24 Ore”: «La chiave del successo dei fondi comuni presso le famiglie italiane è la trasparenza» (Plus, 28-6-2003, pag. 9). Poi un servizio sul Corriere della Sera intitolato addirittura «Fondi comuni, bolle di trasparenza» di cui ci limiteremo a citare le conclusioni di Maria Teresa Cometto: «I fondi comuni offrono il massimo di trasparenza rintracciabile sul mercato, rendendo possibili indagini al microscopio che in altri ambiti non si possono fare», cosa del tutto falsa (CorrierEconomia, 15-12-2003 p. 12). Al danno si aggiunge la beffa.
*Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino
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