sabato 1 novembre 2008

"Le radici della crisi della sinistra" di Marcello Amico - Prima parte

Marcello Amico, ora apprezzato scrittore e poeta, homo philosophicus, un tempo docente di matematica e tutt'ora nonno materno delle mie ragazze, mi invia regolarmente da Catania dove vive, i suoi scritti che appella "corsari" a mò pasoliniano.

Pubblico qui la prima parte di una sintesi da lui compiuta su uno scritto di Roberto Antolini apparso sullla rivista "Il Margine".

"Le ultime elezioni politiche hanno rappresentato un passaggio storico nella vicenda del nostro Paese, perché hanno evidenziato processi la cui origine risale indietro negli anni e oltre i confini nazionali: la rottura di quel compromesso fra capitale e lavoro che era stata la risposta americana alla guerra europea, e che trovava nella dottrina keynesiana il suo manuale e nello stato sociale la sua prassi.

La crisi della sinistra, schiacciata in minoranza in parlamento e nella società, e la destabilizzazione verso destra viene da lontano, da una nuova egemonia culturale.

Verso la metà degli anni settanta la Trilateral, formata da grandi manager delle multinazionali accademici e politici, parlava di “uno spirito di democrazia troppo diffuso, invadente, che può costituire una minaccia intrinseca allentando i vincoli sociali che reggono la famiglia, l’azienda e la comunità” (Crozier e altri, Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, Angeli 1977); e negli anni ottanta e novanta entravano all’opera i think-tanks neoconservatori.

Il fatto è che quel “compromesso” da un lato non serviva più, perché il confronto con il mondo comunista era stato vinto, dall’altro si mostrava troppo oneroso perché il meccanismo di sviluppo si stava inceppando: “negli Stati Uniti la percentuale del reddito nazionale percepita dall’1 per cento che si trova in testa alla scala delle entrate precipitò dal 16% dell’anteguerra all’8% della fine della seconda guerra mondiale, e si assestò su quel livello per quasi trent’anni. Finché la crescita era forte, questa limitazione sembrava accettabile; ma quando negli anni ’70 la crescita si interruppe, allora le classi alte si sentirono minacciate” (D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il saggiatore 2007).

Bisognava fare qualcosa e a Chicago qualcuno ci stava pensando: Milton Friedman, premio Nobel per l’economia nel 1976. Per lui e per i suoi seguaci l’unica vera forma di democrazia era il mercato; i loro schemi matematici dimostravano la necessità di liquidare tutta la politica sociale allora vigente (livelli salariali minimi, programmi di assistenza sociale, programmi pensionistici pubblici, scuola pubblica, edilizia pubblica), di ridurre al minimo la tassazione sui profitti, di eliminare piani di programmazione economica, dazi e restrizioni finanziarie, di privatizzare praticamente tutto. (M. Friedman, Capitalismo e libertà, Studio Tesi 1987)

Lasciandosi alle spalle keynesismo e welfare, e progettando il ritorno ad un capitalismo “puro”, il movimento neo-conservatore aveva ormai una teoria economica di ricambio e un programma politico.

I colpi di stato militari in Cile e in Argentina, sterminando quanto di sinistra era in grado di opporsi, offrirono l’occasione di sperimentare il nuovo corso, dimostrando che quelle ricette funzionavano, eliminavano i ceti medi e rimpinguavano classi dominanti e multinazionali.

Poi fra 1979 e 1980 arrivarono al potere con ricette simili Margaret Thatcher in Inghilterra e Ronald Reagan negli USA, e il capitalismo cambiò marcia per davvero.

(Fime prima parte)

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